Irene Bignardi: Buon compleanno Woody

19 Dicembre 2005
Alla fine di quel piccolo capolavoro su un’epoca e su una città che è Manhattan, Woody Allen elencava (era il 1979) le cose per cui vale la pena vivere: alcune pubbliche e altre private. E dunque Groucho Marx, il giocatore di baseball Willie Mays, il secondo movimento della sinfonia "Jupiter", "Potato Head Blues", i film svedesi, "L’educazione sentimentale", Marlon Brando, Frank Sinatra, le nature morte di Cézanne, i granchi di Sam Wo, il viso di Tracy, che è la bella e brava e dolce Mariel Hemingway di cui Woody Allen è innamorato nel film. Parliamo di un quarto di secolo fa e di un altro millennio. Woody Allen era diverso ma sempre uguale, e citava le cose che gli stavano a cuore e che - cambiale un po’, aggiornale un po’ma non tanto, perché lui non è davvero un tipo che segue le mode - disegnano il mondo allenesco. Oggi Allen Stewart Konigsberg, nel cinema e per tutti ormai Woody Allen, compie settant’anni, ed è reduce da alti e bassi professionali e da sconquassi personali che lo hanno lasciato però stabilizzato (a quanto sembra) sul piano privato con la placida Soon Yi: più sereno, più vivace, tanto che sta per arrivare con uno dei suoi film più smaglianti e intelligenti degli ultimi anni, quel Match Point che, ambientato nella società bene di Londra, con la sua storia di un "bel ami" incrociato con il clone dell’ambizioso giovanotto di "Un posto al sole", ha deliziato gli spettatori di Cannes e molto irritato alcuni critici britannici come per un’impropria invasione di campo. Il suo pubblico di una generazione fa era più giovane, come lui, come noi, e assai diverso da quello che va al cinema adesso e chissà se si diverte o si divertirà allo humour, alla sofisticata ironia, alla limpidezza stilistica di un cinema di parola e di immagini classiche come quello che propone l’ultimo film di Allen. La sua immagine di intellettuale interprete del witz ebraico nuovayorkese si è appannata con il confuso scandalo e gli orribili scontri e le scivolose accuse e verità che lo hanno contrapposto alla sua compagna di tanti anni e di tanti figli adottivi e non, Mia Farrow, e gli hanno tolto l’ironica autorevolezza "morale" del suo pessimismo, quella che aveva raccontato in film come Crimini e Misfatti, come Hanna e le sorelle, come Notti e nebbie. Ma è certo che dopo anni di film di medio profilo senza un nucleo narrativo e una ragione vera, alla vigilia dell’ingresso ufficiale nella terza età Woody Allen ha ritrovato se stesso. Anche se qualcuno potrà rimpiangere che nel film lui non compaia. E che quindi che non si possa celebrare anche il ritorno dell’Allengeist - proviamo a creare un neologismo tedeschizzante - , quel misto di qualità e difetti che lui stesso precisò quando si descrisse ‟ebreo liberal paranoico sciovinista maschio, farisaico misantropo, nichilista disperato”. Dove sono interessanti non solo gli aggettivi con cui circoscrive il proprio identikit, ma anche le virgole: soprattutto nel primo accrocco dei torti e dei difetti che lui amava tanto mettere in scena in prima persona o per interposto interprete, in un impasto di invenzioni fatto più di personaggi, anzi, del suo personaggio, che di situazioni. Se scherziamo con l’Allengeist, è anche vero che è Angst la parola con cui più spesso definiscono la miscela della sua angoscia creativa i critici americani, che lo rispettano ma non lo amano, esattamente come il pubblico del suo paese. Angst, paura, ansia, con un tocco di depressione. Un sostantivo sorprendente e primitivo che sembra non quadrare con le risate di cui Woody Allen si è fatto portatore, con le esplorazioni gentili del passato di La rosa purpurea del Cairo o di Radio Days, con l’ironia mondana sui costumi metropolitani, ma che percorre sotterraneamente tutto il suo lavoro e ci ricorda come la risata sia l’esorcismo di paure antiche. Oggi, forse anche perché è diventato il regista di attori veri che si muovono in una storia inventata e per nulla autobiografica, in cui il regista è veramente il demiurgo e non colui che si guarda allo specchio, è tornato alla leggerezza che è stata la sua grande qualità anche nel trattare i temi di fondo delle nostre vite. Non c’è più il compiacimento autodistruttivo del nevrotico. Non c’è più bisogno di mascherare (come avrebbe detto Fausto Coppi) lo sforzo con lo stile. È tornato un grande osservatore dei mores e un maestro di ironia. Quindi, caro Woody, cento di questi giorni (e chissà, molte grazie alla bambolotta Soon Yi, perché tanto male forse non gli ha fatto).

Irene Bignardi

Irene Bignardi (1943) ha lavorato per il servizio cultura de “la Repubblica” fin dalla sua fondazione, e per lo stesso quotidiano è stata critica cinematografica; ha diretto il MystFest, ha …