Paolo Di Stefano: Giro d’Italia: Il gruppo va sotto processo sui tornanti: “Potevano farcela, se siamo saliti noi...”

29 Maggio 2006
Sono maschere di sofferenza quelle che tagliano il traguardo e si portano verso i pullman, sollevando schizzi di fango. Una sfilata di fantasmi in ordine sparso: Piepoli, Pellizotti, Caruso, Cunego, Simoni, Ghisalberti... L’unico che sembra appena uscito da una gita in campagna è Basso, solito sorriso, solita eleganza, solita flemma. Gli altri, chi tossisce l’anima, chi sputa, chi non riesce a controllare il respiro, chi si accascia sul manubrio, chi cerca la prima spalla su cui poggiare la fronte, chi lascia smoccolare il naso, chi con il polso si asciuga la bava. Un inferno. Eppure alla gente non basta. Soprattutto alle centinaia di cicloturisti che sono partiti all’alba verso Plan de Corones, dove avrebbero aspettato i ciclisti al traguardo. ‟Stamattina alle quattro ho visto dei ragazzi che andavano su con lo zaino in spalla”. Ottavio Cogliati è stato olimpionico a Roma nella crono a squadre. Ricorda l’epica di Gaul sul Bondone. È arrivato qui qualche giorno fa dalla Croazia sul suo camioncino, con moglie e fratello, ed è infuriato: ‟Venerdì ho detto alla Paola: andiamo su al Furcia a vedere la tappa. Abbiamo lasciato le isole e il sole e oggi che delusione! Il ciclismo come lo intendiamo noi sta morendo, ormai decidono i corridori”. Paola è affacciata al furgone: ‟Barboni! Siam venuti su per vedere una corsa che non è neanche finita...”. ‟Un massacro, se facevano Plan de Corones arrivavano solo in due o tre, ma a piedi”. Franco, partito ieri da Vittorio Veneto per godersi il suo Gibo Simoni, è rimasto su qualche ora, abbastanza per parlare di tormente di neve e di ghiaccio. ‟Potevano farcela, la strada era perfetta, altro che sterrato, era una pista battuta che sembrava cemento - incalza Manolo -, se l’abbiamo fatta noi senza morire, figurarsi loro”. Ecco Bettini tagliare la folla. Mentre ancora pedala per inerzia, sembra voler vomitare sulla strada i polmoni, con colpi di tosse secca. Passano nel nevischio le maschere grigie, infangate, rese inanimate da chilometri di gelo. Ma non basta al tifoso infagottato davanti all’Hotel Alpen: ‟È una vergogna, uno schifo! Vadano a lavorare! Non perderò più neanche un secondo per questo ciclismo!”. Loris è più pacato e filosofico. Si definisce un innamorato sofferente della bicicletta e parla di ‟realtà spezzata in due”: ‟I corridori di vent’anni fa il Passo delle Erbe di oggi se lo mangiavano a colazione...”. Ma non ci sono mugugni che sfiorino Sua Altezza Basso, Sua Bassezza Ivan, che viene acclamato a furor di popolo. È il sovrano assoluto. Ci sono occhi, inni e battere di mani solo per lui che pedala nei vortici gelati con un aplomb e un sorriso regale. Un corpo del tutto estraneo al girone dei dannati che ancora tossiscono e sputano la loro fatica. ‟È l’erede di Pantani, l’astro nascente, il nuovo Indurain, il nuovo Armstrong”. C’è da credergli. Renzo, di Treviso, è uno che se ne intende. ‟Non ce n’è per nessuno per i prossimi tre-quattro anni, si vede la scuola di Lance”, gli fa eco il suo amico Loris. Per godersi la tappa sono andati a prendere il pass a Forlì. Il cuore del trentino Carlo batte per Simoni e forse per questo si tiene fuori dal coro osannante: ‟Andiamoci piano con Basso. Siamo italiani e ci piacciono gli eroi: prima c’era Cunego, che adesso è diventato una pezza da piedi. Non è giusto, calma, calma. Per entrare nella leggenda Basso deve ancora vincere il Tour”. Le maschere sono scomparse. Ancora un’oretta e il sole che comparirà ad accarezzare gli abeti sembrerà avere lo stesso sorriso beffardo di Sua Maestà in rosa.

Paolo Di Stefano

Paolo Di Stefano, nato ad Avola (Siracusa) nel 1956, giornalista e scrittore, già responsabile della pagina culturale del “Corriere della Sera”, dove attualmente è inviato speciale, ha lavorato anche per …