Giorgio Bocca: Il paese delle urla e delle rivoltelle

19 Gennaio 2007
Al megaconvegno contro la repressione a Bologna si andò con la famiglia intera: mia moglie e io all’hotel Jolly, matrimoniale con bagno, i tre figli adolescenti sotto i portici dell’università con i sacchi a pelo. Si diceva che erano arrivati a Bologna in sessantamila: l’Italia ribollente della contestazione, più parole che rivoltelle, che faceva da coro all’avanguardia rivoluzionaria delle Brigate Rosse, molte parole ma anche qualche rivoltella. E subito l’impressione di una festa giovanile più che di un’adunata sediziosa, subito l’impressione che si era lì per divertirsi più che per combattere. Così del resto era avvenuto tutto l’anno. Sì c’erano i brigatisti e i gambizzati, i Prima linea irresponsabili e feroci e ogni mattino fra le otto e le nove c’era l’ora in cui l’uomo-simbolo, la vittima esemplare, poteva cadere sull’asfalto di una strada, nel suo sangue ma la tragedia si mescolava sempre alla festa, alla vacanza; quelli di Prima Linea "staccavano" per andar a sciare al Sestriere, i brigatisti rossi emiliani andavano a Spigarolo per provare i nuovi culatelli e a Bologna al megaconvegno si andava per la politica ma anche per lo scontro teatrale fra studenti anarcoidi e militanti del Pci che era una cosa seria ma sembrava un po’ una storia come La secchia rapita. Quei tumulti metà veri e metà recitati piacevano molto a tutti, facevano parte di quelle lotte civili che sono la passione degli italiani, quelle guerre in cui tra una battaglia e un agguato torni a casa per dormire nel tuo letto.
Bologna era al centro di quella tragicommedia esplosa il 12 marzo di quel burrascoso ’77. Al centro della città si è formata una sacca di rabbia e di scontento: migliaia di giovani di sinistra che dopo uno scontro con i cattolici di Cl partono in corteo diretti a Piazza Grande. I carabinieri cercano di fermarli, parte un colpo di moschetto e colpisce a morte lo studente Francesco Lorusso di Lotta continua. È la rivolta. I giovani danno fuoco al "Cantunzein", il ristorante dove il professor Zangheri sindaco della città invita gli stranieri che vengono a visitare il "miracolo rosso" di Bologna, il comunismo ricco, la grande trovata del "capitalismo gestito dai compagni". Da lì l’idea della sinistra radicale di fare proprio a Bologna un maxiconvegno contro la repressione. Ne nasce qualcosa di veramente maxicomprensivo di tutta l’Italia intellettuale e politica di allora. Tutti vengono a Bologna alla ricerca della loro identità, che in sostanza rimane l’identità della italica borghesia, ma che tutti vogliono mascherare, rifiutare, deformare. È una colossale commedia degli equivoci che il popolo bolognese dei negozianti e dei ristoratori capisce al volo ricevendo fraternamente i "sovversivi" in cui riconosce i figli che ha mandato all’università perché diventino anche loro dottori, professori. I promotori del maxiconvegno nati e vissuti in Bologna la dotta vogliono la rivoluzione ma anche il corpo accademico, invitano avvocati democratici, psichiatri, magistrati, giornalisti a patto che accettino gli sberleffi e gli "scemo" della base movimentista, vogliono ospitare lo spontaneismo giovanile ma nel rispetto della buona cultura, si rivolgono a una classe operaia immaginaria mentre quella vera, presente a Bologna in carne e ossa sta nei servizi d’ordine delle aziende municipalizzate. Ha risposto bene il sindaco professore ai giovani del convegno che si presentavano come occupanti di Bologna: «Ragazzi, l’abbiamo occupata già noi del Pci».
La città risolve da sola i problemi della coesistenza con i bravi ragazzi che si dicono rivoluzionari. Trasforma l’invasione in affare. Il resto lo fanno gli intellettuali che recitano se stessi, la Maciocchi, Dario Fo, Felix Guattari, Alain Guillaume che fraternizzano con Mimmo Pinto leader dei "disoccupati organizzati" arrivato da Napoli.
Bologna invasa ricorda un po’ la battaglia di Alesia del divo Cesare, gli eserciti in campo sono l’uno dentro l’altro assedianti assediati. Potrebbe succedere che un autonomo vestito da poliziotto spari sugli studenti come che un poliziotto vestito da autonomo spari sui carabinieri. Del resto anche i giovani che protestano contro la repressione si sono già divisi fra radicali e moderati. Gli intellettuali, i riformisti, i garantisti si ritrovano a discutere all’università e nei vecchi palazzi forniti dal municipio comunista mentre i duri, quelli venuti a Bologna per menare e magari per sparare, si ritrovano al palazzetto dello sport, i Volsci romani, gli autonomi di Padova, quelli di Potere operaio, quelli di Senza tregua e di Prima linea che urlano "Curcio libero".
Ma nello schieramento concentrico ci sono anche diecimila poliziotti che circondano il palazzetto dello sport senza attaccarlo e attorno ai poliziotti nella periferia della città il governo ha mandato anche i soldati dell’esercito per essere ben sicuro che il vulcano non esploderà. Anche gli studenti giovanissimi delle scuole medie si sono riuniti in un teatro, sono gli ascoltatori di Radio Alice del rivoluzionario Bifo, giovane e divertente che ho preso in giro sul giornale. Entro nel teatro e mi riconoscono. Sale un coro più scherzoso che minaccioso: «Radio Alice non si tocca, sequestriamo ». Forse ci sono anche i miei figli a ritmare la filastrocca.
Il ‘77. Dice Renato Curcio il fondatore delle Br: quel ‘77 ci è piombato addosso come una slavina di giovani selvaggi. "Slavina" è la parola giusta. Il Movimento, come lo chiamano, è qualcosa di imprevedibile, di inarrestabile. Le Br cercano disperatamente di chiudergli le porte avendo capito che ne sarebbero travolti, una chiusura totale, maniacale, disperata. Il nucleo storico ma anche Moretti e Fenzi, i brigatisti nuovi della O, l’organizzazione che viene dopo il primo slancio rivoluzionario, capiscono a tatto, a odore, a istinto o prima che a ragione che la slavina giovanile è qualcosa di anarcoide che ha tagliato i ponti con la storia di famiglia, con il partito comunista, con gli operai, con la disciplina leninista, con i pugni di acciaio. Ricorda il brigatista Ognibene: noi dal carcere ci rendevamo conto che non saremmo mai riusciti a controllare quella leva giovanile. Nel ‘77 ogni possibilità di costituire un partito era caduta, le forze sociali in movimento erano troppo composite, i nostri legami con l’esterno erano stati sommersi dalla quantità di lotte ambigue e mutevoli. A un certo punto fra noi del gruppo storico si arrivò a dire: ‟Compagni noi le Brigate rosse le abbiamo fatte, potremmo anche disfarle”.

Giorgio Bocca

Giorgio Bocca (Cuneo, 1920 - Milano, 2011) è stato tra i giornalisti italiani più noti e importanti. Ha ricevuto il premio Ilaria Alpi alla carriera nel 2008. Feltrinelli ha pubblicato …