Marco D'Eramo: Presidenziali USA. Risuonano le note di Obama

09 Settembre 2008
Voi leggete quest'articolo quando i fuochi d'artificio saranno già fioriti nel cielo notturno delle Montagne Rocciose, le note di Stevie Wonder avranno scaldato i 75.000 spettatori dello stadio Invesco, e Barack Obama si sarà lanciato a capofitto nei due mesi decisivi per la campagna presidenziale. Ma, a causa dello otto ore di differenza nel fuso orario, scrivo quando i militanti sperano ancora che allo stadio venga non solo Wonder ma anche The Boss, Bruce Springsteen (speranza ridotta al lumicino), e i cancelli dello stadio devono ancora aprire (e io mi devo precipitare, sette ore prima del discorso di Obama, per sperare in un posto decente).
Per ora nella testa risuonano ancora le proteste del corteo pacifista fuori dal palazzo dei congressi, il Pepsi Center detto anche The can, «la lattina», e le parole di Bill Clinton, John Kerry e Joe Biden all'interno. Infatti, per la prima volta da quando è cominciata la Convention, la protesta è stata consistente, e il centro di Denver pattugliato da minacciosi agenti in tenuta anti-guerriglia: incredibile come la tecnologia repressiva sia progredita dai tempi in cui il battaglione Padova della Celere faceva i caroselli con le jeep nel '68. Ed è stupefacente l'interazione tra immaginario filmico e pratica politica. Le nuove divise anti-guerriglia fanno somigliare gli agenti a tanti robocop di un ipotetico, futuro totalitarismo iper-tecnologico. I gambali neri sono tali e quali a quelli delle antiche armature, con tanto di ginocchiere, solo di fibre sintetiche invece che di metallo. Le divise tutte nere fanno pensare che il vero black block siano loro. Anche le agenti donne diventano massicce e e robotiche dentro i neri giubbotti imbottiti. E appaiono quasi incongrue le manette di plastica blu, agganciate a mazzo alla tuta come fiori di campo. Quanto alla polizia a cavallo, persino i loro palafreni indossano mascherine antigas a proteggere i loro occhi miti e svegli.
Per la prima volta il corteo non è costituito da uno sparuto drappello di dimostranti, ma da migliaia e migliaia di giovani che sfilano dietro a un plotone di «Veterani contro la Guerra» che marciano in divisa, al passo sincrono, cantando un'imitazione contestatrice degli inni di addestramento dei marines tipo Full Metal Jacket di Stanley Kubrick. Questi veterani cercano di consegnare a Obama una lettera per invitarlo a un ritiro immediato dall'Iraq. Arrivati vicino al Pepsi Center, proprio mentre all'interno comincia a parlare l'ex presidente Bill Clinton, davanti agli sbarramenti e alle file di agenti in falange macedone, vi sono momenti di tensione, qualche scontro, ma alla fine un veterano viene mandato in ambasceria e torna con l'assicurazione che la lettera sarà consegnata. Ma la tensione permane per tutta la serata.

L'Iraq arriva con Kerry
La sessione di mercoledì è stata la prima in cui la guerra in Iraq ha acquistato rilievo, non solo fuori, con la protesta per le strade, ma anche, all'interno, anche per merito - curiosamente - di quel John Kerry che nel 2004 perse le elezioni anche per aver relegato questa guerra ai margini della sua campagna. Un John Kerry che per questa sconfitta gode di cattiva fama qui tra i democratici e che perciò quando ha detto «Sono pronto ad unirmi a Barack Obama per aiutarlo a vincere», dalla piccionaia in cui mi trovo si leva un unanime «Grazie, ma non c'è bisogno». Però Kerry avuto il merito di essere stato finora il primo e l'unico oratore di spicco a invocare la chiusura di Guantanamo. E ha avuto anche la grazia di prendersi in giro.
La campagna del 2004 fu infatti segnata dagli attacchi repubblicani così strutturati: «Il Kerry senatore era a favore di questa guerra, il Kerry candidato è contro; Kerry è stato a favore prima di essere stato contro...». Nell'intervento di mercoledì Kerry ha fatto il verso a questa campagna: «Lasciatemi paragonare, per esempio il senatore McCain al candidato McCain. Il candidato McCain sostiene oggi i tagli di tasse che il senatore McCain un tempo denunciava come immorali. Il candidato McCain critica il disegno di legge sul cambiamento climatico presentato dallo stesso senatore McCain. Il candidato McCain dice che ora voterebbe contro la legge sull'immigrazione che era stata scritta dal senatore McCain. Ma sul serio? E poi parlate ancora di essere pro prima di essere contro». Mercoledì è stato anche il giorno in cui, grazie a Clinton, Kerry e Biden, gli attacchi contro il candidato repubblicano sono saliti di un tono.
Il discorso più atteso era senza dubbio quello del marito di Hillary, che durante le primarie aveva lanciato bordate al vetriolo contro Barack Obama. Bill si è presentato in forma smagliante (quattro anni fa gli era stato impiantato un by-pass coronario), ed è stato accolto da un'ovazione interminabile, più calda ancora di quella riservata a Ted Kennedy, a esprimere la voglia della base democratica di riannodare un antico amore: d'altronde, malgrado Clinton fosse il primo oratore della serata vera e propria, alle 7 di sera, il palazzetto dello sport era pieno da scoppiare (e molti ascoltatori se ne sono poi andati dopo il suo discorso).

Ma il più amato resta Bill
E l'ironia di Clinton si è subito manifestata: non potendo interrompere gli applausi irrefrenabili, per riuscire a prendere la parola, Bill ha infine detto «I love it». Poi, per un quarto d'ora ha rivendicato i successi della propria presidenza per dire che solo Obama potrà rinnovarli e potrà riportare l'America sui giusti binari. In modo nemmeno tanto sottile, per spiegare il suo «totale appoggio» a Obama, Clinton ne ha definito gli obiettivi e quindi gli ha imposto la piattaforma politica della futura presidenza. Tutto questo per dire che il messaggio lanciato dai Clinton è: «Non è finita qui». Ma questo messaggio è stato lanciato con humor, simpatia e con le straordinarie doti comunicative di Bill che ha fatto crollare il soffitto quando, dopo aver sottolineato come per 8 anni è stato un vittorioso comandante in capo delle forze armate americane, ha ricordato: «Quando mi presentai candidato 16 anni fa, i repubblicani subito dissero che ero troppo giovane, che non avevo l'esperienza necessaria. Non vi suona familiare?» (Obama è continuamente sotto tiro perché «troppo giovane» e «inesperto»). La distinta, anziana signora accanto a me, tipica New England, occhi celesti, naso sottile, capelli chiari, mi dice: «È il migliore. È il migliore politico che abbiamo. Dovrebbe essere lui a fare il presidente di nuovo».
A confronto, il discorso del candidato alla presidenza, il senatore del Delaware Joe Biden è stato abbastanza prevedibile e senza acuti. Ma ha svolto il compito che gli era assegnato: rendere più umana la candidatura di Obama, rafforzare i rapporti (finora difficili) con i sindacati e il mondo del lavoro e, dall'alto della propria esperienza internazionale, sferrare attacchi contro l'avversario repubblicano: Biden ha ricordato come McCain si fosse opposto a ogni scadenza per il ritiro dall'Iraq, mentre proprio in questi giorni gli Usa stanno trattando con il governo iracheno una scadenza temporale per il rimpatrio delle proprie truppe; che McCain si era opposto a qualunque contatto diplomatico con l'Iran, mentre il Dipartimento di stato di Condoleeza Rice ha avviato colloqui addirittura per aprire un ufficio di rappresentanza a Tehran.
Ma il vicepresidente non conta niente nella campagna presidenziale: nel 1988 George Bush padre vinse a valanga pur con un partner di cordata come Dan Quayle che era una vera e propria frana. Del resto, i due ultimi precedenti candidati vice democratici non sono proprio incoraggianti. Nessuno di loro è presente qui. Uno sarebbe linciato: quel Joe Lieberman, senatore del Connecticut, che era candidato insieme ad Al Gore nel 2000 e che ora è passato armi e bagagli ai repubblicani, interverrà alla loro Convention la settimana prossima e si mormora persino che possa essere candidato alla vicepresidenza di McCain.
L'altro dovrebbe nascondersi sotto i tavoli: quel John Edwards, senatore del North Carolina, che nel 2004 si era presentato alla vicepresidenza insieme a John Kerry, quest'anno candidato perdente ma prediletto dalla sinistra, e che ha dovuto ammettere di avere avuto una prolungata avventura con un'impiegata del suo staff elettorale nel 2006, quando sua moglie stava già combattendo contro il cancro. Ma come mi dice qui un delegato della Florida, se Edwards è un paria, Lieberman è un reprobo: «Uno ha tradito solo sua moglie, l'altro ha tradito tutto il partito».

Marco d’Eramo

Marco d’Eramo, nato a Roma nel 1947, laureato in Fisica, ha poi studiato Sociologia con Pierre Bourdieu all’École Pratique des Hautes Études di Parigi. Giornalista, ha collaborato con “Paese Sera” …