Paolo Rumiz: Un pulitzer da buttare
04 Novembre 2003
Cancellate quel Pulitzer. Fatelo a tutti i costi. E non
importa se fu dato nel lontano '32, o il premiato è morto da decenni. Qui c’è
un "infame" da punire. Walter Duranty, corrispondente nella Mosca di
Stalin per conto del New York Times. Troppo grave la sua colpa, dicono negli
Usa. Non ha solo magnificato piani quinquennali, inneggiato a un dittatore,
edulcorato purghe infami. Ha fatto di peggio. Ha liquidato come inesistente il
deliberato sterminio dei contadini nel 1932-33, almeno sei milioni di morti per
fame nella sola Ucraina. Tutto il grano sequestrato, fino all’ultimo chicco,
per far crepare i "kulaki", rei di opporsi alla collettivizzazione.
Nel granaio d’Europa, le terre nere di leggendaria fertilità, morirono come
mosche: 25 mila al giorno. Diciassette al minuto, una frequenza quadrupla che
nell’ecatombe di Verdun. L’assassinio tramite requisizione di cibo non s’era
mai visto nella storia dell’uomo, e l’Ucraina dovette inventare una parola
nuova per descriverlo: "Holomodor", strage da fame provocata dall’uomo.
Fu orrendo. Un morto su tre era bambino o neonato. Le teste, le gambe, le pance
si gonfiarono, divennero mostruose. I piccoli urlavano come animali, le madri
scapparono di casa per non sentirli. Alcuni finirono vivi nelle fosse comuni.
Furono sbarrate le città, perché gli operai non vedessero cosa accadeva ai
contadini. Ma i contadini dovevano essere puniti, perché si opponevano all’imbroglio
dei Kholkoz. Furono milioni di morti. Impossibile capire Kiev ignorando questo
fatto. Impossibile, anche, capire perché una parte del Paese accolse Hitler
come un liberatore. Oggi l’olocausto dimenticato compie 70 anni; tutta l’Ucraina
accende candele sui balconi per ricordarlo. E oggi la commissione del Pulitzer,
guidata da Sigvar Gissler, riapre il dossier e annuncia una decisione a giorni,
entro novembre. Se il responso sarà punitivo, sarà il primo, clamoroso caso di
revoca del premio giornalistico mondiale. Finora c’era stata solo una
restituzione "spontanea", con Janet Coke che nell’81 aveva ammesso
di essersi inventata la sua storia. Il tam-tam è già iniziato, la lobby
ucraina a Washington ha inviato quindicimila cartoline di appello alla
commissione perché "punisca" il reprobo. Anche la cultura attacca.
Mark Von Hagen, storico della Columbia University, in una lettera resa pubblica
pochi giorni fa, elenca fatti, misfatti, bugie e omissioni del corrispondente
del N. Y. T., accusandolo di tradimento dei "valori liberali". Duranty,
infatti, conosceva la verità. Oggi lo sappiamo. L’aveva confidata
riservatamente al Foreign Office, Londra. Per questo la sua redazione l’ha
già scaricato. E per questo il processo postumo parte con minime vie d’uscita
per l’imputato. Gli argomenti di Von Hagen sono stati rilanciati proprio dal
New York Times, il cui editore, Arthur Sulzberger jr., ha personalmente
coinvolto il "board" del Pulitzer. A nome dei giornalisti, Bill Keller
notifica che il desk considera il lavoro di Duranty "terrificante, una
parodia di propaganda". Insomma, tutti d’accordo: l’opera di Duranty è
stata una sciagura per il Times. E dicono: se la commissione Pulitzer vorrà
ritirare quel premio, non ci saranno opposizioni. Eppure, non tutto è chiaro in
questa storia. Che Walter Duranty l’avesse fatta grossa lo si sapeva da anni.
Già nel 1990 il suo caso era stato oggetto di riesame. E George Orwell, nel
dopoguerra, aveva già incluso il nostro nella famosa lista dei
"comunisti" di cui diffidare. Perché dunque ora? Basta l’anniversario
del massacro a spiegare questo ritorno d’interesse? No, non basta. C’è dell’altro.
La politica. Nel 2004 l’Ucraina va a elezioni, e ci va con addosso una
spaventosa frustrazione. La Polonia e persino i Paesi Baltici - ex fratelli
sovietici - entrano nell’Europa dei ricchi. La Romania è in anticamera. Kiev
invece niente. Ridotta in miseria, vive una lontananza disperante non solo da
Mosca ma anche da Bruxelles. Così ecco spuntare l’America, con dietro la
potente diaspora ucraina. Succede il 20 ottobre, quando il Congresso Usa, sulla
scia di quanto già deliberato dal parlamento e dal governo di Kiev, vota all’unanimità
una risoluzione (la numero 356) per ricordare solennemente la tragedia. La
decisione rappresenta, si sottolinea, un "passo significativo nel
ristabilimento dell’identità nazionale ucraina, l’eliminazione di ciò che
rimane della dittatura sovietica, l’avanzamento degli sforzi per un’Ucraina
libera e democratica". Un’Ucraina, si ribadisce, "pienamente
integrata nella comunità delle nazioni occidentali". Già Putin aveva
tentato di disinnescare la bomba, riconoscendo pacatamente le colpe moscovite
nel suo ultimo discorso all’Onu. Washington stavolta va molto oltre. Parla di
"genocidio". Cioè di aggressione etnica di Mosca nei confronti degli
ucraini. Figurarsi la reazione della diplomazia russa su questo tema che sarà
sicuramente al centro dell’imminente campagna elettorale a Kiev. Yevhen
Khoryshko, dell’ambasciata di Mosca a Washington, sottolinea:
"dissentiamo in modo categorico con una simile definizione dell’evento".
E precisa: vi furono molte tragedie nei tempi di Stalin, ma non solo per gli
ucraini; la strage colpì i russi, gli estoni, i ceceni, i kazachi, i tatari, le
genti di Crimea e tantissime altre. L’irritazione indica una paura evidente.
Quella che, di fronte al vuoto d’iniziativa dell’Europa, l’America possa
attizzare rancori contro Mosca e diventare padrona di uno dei più sconfinati
granai del pianeta Terra. La commissione Pulitzer tace, trincerata nel riserbo e
assediata dalle lobby. Non ha un compito facile, anche per un motivo di diritto.
Duranty fu premiato per i suoi scritti del '31, intrisi sì di propaganda
sovietica, ma comunque precedenti allo sterminio organizzato. Così è lo stesso
Bill Keller a dire: "se quelli del Pulitzer vogliono sostenere che un
premio può essere revocato per un comportamento successivo al conferimento del
medesimo, è loro diritto di farlo". Ma, rileva, altri vincitori discussi
potrebbero allora trovarsi di fronte ad analoghe contestazioni. Il rischio è
che tutto l’impianto del premio venga messo in crisi. E poi alla malafede di
Duranty fa riscontro quella dell’intero Occidente. In quegli anni il
capitalismo era troppo sconvolto dalla crisi del '29 per guardare ai malanni del
comunismo. E Roosvelt, appena eletto presidente, era impegnato a gestire il
riconoscimento diplomatico dell’Urss e il suo ingresso nella Società delle
Nazioni. Ricorda lo storico dell’Est Federigo Argentieri che i pochi scampati
alla carestia, giunti negli Usa, si trovarono di fronte a "un muro di
diffidenza e incredulità". E che dire di Mussolini? Bombardato di lettere
allarmate dal console Gradenigo di stanza a Kharkov, non disse nulla perché in
quel momento flirtava con Mosca. Hitler, pure lui informato, tacque. Troppo
impegnato, forse, nella presa del potere. Poi, dopo la guerra, venne il
negazionismo dei comunisti occidentali. Inghilterra, Francia, Italia. Milioni di
vittime ignorate per realpolitik. Quanti "mea culpa" si tirerebbe
dietro una scomunica di Duranty! In Italia solo oggi se ne parla. Come al
convegno sulla grande carestia organizzato da pochissimo a Vicenza dall’Istituto
per le ricerche di storia sociale e religiosa Onlus, presieduto dal prof.
Gabriele De Rosa. Ricorda Argentieri che un tremendo documentario dell’83
prodotto in Canada sull’argomento fu cortesemente respinto dalla Rai perché
si trattava di una "patata bollente". E tre anni dopo, il capolavoro
di Robert Conquest - Harvest of sorrow (Raccolto di dolore) - già tradotto in
italiano, non fu mai pubblicato "per cause non del tutto chiare", e
solo oggi viene ricuperato da Liberal Libri. Povera Ucraina. Senza quell’evento-archetipo
dell’orrore, spiega Oxana Pachlovska dell’Accademia delle Scienze di Kiev e
della Sapienza di Roma, non puoi capire lo sfascio attuale. Non puoi intendere
la frattura che esiste ancora oggi fra uomo e terra, padri e figli, campagna e
città. Non puoi comprendere nemmeno Cernobyl. Anche quella catastrofe,
riconosce la Pachlovska, è il "prosieguo di un vuoto primordiale in cui la
Fame aveva già fatto sprofondare il Paese". Un evento, scrisse Vasilij
Grossman in Tutto scorre, dopo il quale "la non libertà trionfò
incontrastata dal Pacifico al Mar Nero".
Paolo Rumiz
Paolo Rumiz, triestino, è scrittore e viaggiatore. Con Feltrinelli ha pubblicato La secessione leggera (2001), Tre uomini in bicicletta (con Francesco Altan; 2002), È Oriente (2003), La leggenda dei monti …